La luce vibra nel paesaggio verticale della foresta dove ora, nella brezza del pomeriggio, le ultime foglie dell’autunno suonano con un timbro metallico, febbrilmente agganciate ai alberi.
Guadato il fosso Martelluzzo con la cascatella di acqua chiara, il sentiero si restringe progressivamente, ed a misura che si va avanti, il bosco si ingrandisce e prende forma. Un’armonia nasce tra le querce più giovane, filiforme, e quelle più anziane contorte ed alte. Malgrado la dimensione degli alberi, il bosco rimane luminoso, conseguenza della posizione elevata del sito, situato su un promontorio di roccia. Li, attraverso la matrice verticale di tronchi appare la sagoma di un edificio. Una struttura in controluce, immersa nell’amalgama vegetale: un muro diroccato alto 6-7 metri. Un raggio lo persa per una feritoia. I blocchi di dimensioni variabili, arrotondati, usati dal tempo, si succedono verso l’alto con irregolarità, come se fossero elementi messi là dalla natura. Dal basso come dall’alto, le braccia dell’edera si estendono e lavorano a sconfiggere sempre di più l’imponente edificio quadrangolare del XIII° sec. Piccole querce, asparagi e altre piante hanno trovato sulla cima diroccata e disfatta del castello un sito per svilupparsi. Un fosso largo segue il lato Ovest del castello e si precipita nella ripa che delimita lo sperone di roccia del lato Nord.
Nella direzione opposta, un muretto di grossi blocchi di pietra squadrati taglia il coperto vegetale ed il letto di foglie dell’autunno e resista per ancora un po’ all’assalto dala foresta che lavora a fare sparire ogni traccia di questi popoli.
Assemblati senza malta e ancora perfetamente uniti, si tratta probabilmente di un muro di fortificazione Etrusco. La cinta si prolunga su due cento metri circa, fino all’altra ripa, quella che si precipita nella “valle dei megaliti” dove riposano i grandi mazzi di roccia scolpiti della selva di Malano. La vegetazione si apre e viene sostituita da quella tipica delle zone rocciose dove sfiora il Tufo – ginestra, cisti querce nane,… Li, fuori della cinta, riposano le fondamenti di un edificio religioso dell’alto medioevo. Una o due file di blocchi di peperino sono ancora disposti come lo erano otto secoli fa, e due colonne monolitiche quadrangolari riposano nel cuore dell’edificio. Del lato dell’abside, prima della chiesa, tombe antropomorfiche di varie dimensioni e sarcofagi monolitici a sagoma umana. Poco più avanti, la ripa offre una visione atemporale sulla valle dei megaliti – la selva di Malano e San Nicolao.
Una valle rustica ora colore ruggine, popolata di grandi monoliti stondati dal tempo, masse scure che abitano l’ampia conca della Vessa, colossi rovesciati e rigirati dalla caduta dal dirupo poi scolpiti da popoli finora sconosciuti.
Li, sospesi al confine del pianoro, le abitazioni ipogee che si proiettano nel paesaggio come ingrandito dalle linee che divergono verso l’orizzonte. Ambienti ipogei abitati dalla preistoria quando ancora queste si accedevano solo dalla ripa a partire da scale di legno.
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